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AGI - Prima l'influencer e poi l'amica: i genitori riabbracciano nello stesso giorno le due adolescenti toscane che si erano allontanate da casa da 11 giorni. I carabinieri di Pinerolo, nel Torinese, hanno rintracciato dopo lunghe ricerche la sedicenne di Reggello, Selen Jennifer Castillo, che aveva fatto perdere le sue tracce senza cellulare né documenti assieme a una diciassettenne di Pontedera, influencer su TikTok, conosciuta online. La segnalazione è arrivata dai carabinieri della Compagnia di Figline Valdarno, in provincia di Firenze, che avevano diramato le ricerche in tutta Italia. L'amica era rientrata a casa lunedì mattina con un treno da Bologna. È stata la stessa madre a renderlo noto. Selen aveva, invece, fatto perdere le tracce il 14 gennaio, dopo aver lasciato alla madre un bigliettino: “Starò bene. O da papi o da un'amica. Appena trovo un telefono ti chiamo. Scusami tanto". Le polemiche contro l'influencer Sentita dagli investigatori dopo il rientro a casa, la diciassettenne - oltre 58.000 follower su TikTok e Instagram, in passato denunciata per aver spinto un ragazzo disabile a spogliarsi sui social - ha ribadito la tesi dell'allontanamento volontario. Poi ha raccontato di aver girato diverse città (Verona, Novara, Milano, Torino, Bologna) assieme all'amica, viaggi testimoniati dalle numerose foto e video caricate regolarmente sui social. Ma non ha voluto rivelare la posizione di Selen né i motivi della ‘fuga' I social tornano al centro della cronaca a pochi giorni di distanza dalla tragedia di Palermo, dove una bimba di 10 anni è morta soffocata per aver partecipato a una ‘challenge' sui social.
AGI - Nei 65 metri quadri di ‘Nuvole in cantina' è successo di tutto per sei anni: si sono avvistate attrici vestiti da sirene planare dal soppalco, poeti che declamavano versi abbinati a calici di vino, fumettisti dello studio Bonelli che decoravano le tovagliette della cena. “Il 28 gennaio il mio sogno finisce – racconta all'AGI Lorenzo Ninni, il titolare di questo piccolo locale di successo ai bordi della periferia di Milano est -. Eravamo arrivati quasi alla cima della tranquillità dopo anni di sacrifici, il tempo di piegarsi un attimo sulle ginocchia per tirare il fiato e alzare lo sguardo verso l'alto ed è arrivata una spinta brutale che ci ha respinti oltre al punto di partenza, direttamente alla fine: la pandemia. Intorno a noi, il silenzio: politici, associazioni di quartiere e di settori, tutti spariti ”. "A Milano siamo tutti sulla soglia, basta un mese di stop per fallire" Nato con un'idea originale, “unico in Italia a proporre insieme vino e una ricercata scelta di fumetti”, si è imposto come la casa di chiunque avesse una proposta creativa, sempre accompagnata da un vino biologico selezionato da Ninni tra gli amici vinaioli sparsi in diverse regioni Il problema dello spazio era stato risolto ingaggiando per alcune serate venditori di Street Food: “Mi ricordo una serata legata alla rassegna ‘JazzMi' con 200 persone felici sotto la pioggia, davanti al locale, dopo avere visitato una minuscola mostra di battipenna, la parte della chitarra dove batte il plettro, disegnata a fumetti”. Il Covid, poi. “A Milano si fallisce perché siamo tutti sulla soglia, se il virus ti blocca per qualche mese ti distrugge se non ci sono aiuti. Il mio era proprio il locale dell'assembramento. L'idea è che chi ci entrava stava attorno al tavolone e si conosceva, qui sono nati amori e amicizie. Tutto quello per cui ‘Nuvole in cantina' aveva un senso, la condivisione e l'improvvisazione, è stato spazzato via. Forse non è esatto dire che siamo stati uccisi dal Covid ma dalla falle del sistema, evidenziate dal virus. Dall'indifferenza di chi avrebbe dovuto sostenerci". Ora diventerà una tigelleria "Per un po' sono rimasto aperto come libreria - prosegue Ninni - ma non ho ricevuto un centesimo. Chi ci doveva proteggere, ci ha abbandonato. Se mi dici di chiudere io chiudo, non metto in pericolo la salute dei miei clienti, ma non puoi, com'è successo, il venerdì sera non farmi sapere se posso comprare i formaggi e poi dirmi il sabato che siamo zona rossa”. I suoi clienti lo hanno implorato di resistere, presentandosi in questi giorni, in tanti, commossi davanti alla porta e pronti anche a fare delle collette. “Ma ormai mi hanno ucciso la passione, se entravi qui prima del Covid io ti davo l'elenco di 365 giorni di serate belle, ora non so neanche se posso pagare la fattura al venditore mentre stappo una bottiglia. Così però non fa per me: io ti vendo l'emozione, non il pensiero della fattura, il mio guadagno”. “Grazie a chi c'è stato – ha scritto nel un post di addio su Facebook – a chi ha consigliato quel libro o quel fumetto, a chi si è emozionato con me al profumo di un tappo, alle gioie di un bimbo che ascolta delle letture, a chi ha riso e pianto con me, a chi ha scolato con me a notte fonda l'ultima bottiglia”. Le ‘Nuvole in cantina' è stato acquistato da un imprenditore che ne farà una tigelleria.
AGI - Il 30 dicembre scorso usciva sulla piattaforma Netflix la serie “Sanpa - luci e tenebre di San Patrignano”, serie TV che, attraverso interviste a collaboratori e ex ospiti, con immagini d'archivio, documenta la controversa storia della comunità di riabilitazione per tossicodipendenti fondata da Vincenzo Muccioli nel 1978, a Coriano. “Ho voluto vedere quella serie, nonostante ne avessi timore. Perché sapevo che mi avrebbe scosso. Al contrario di quanto dichiarato dai responsabili di San Patrignano, l'ho trovata più che equilibrata, con un ottimo lavoro di ricostruzione. E' demotivante però il fatto che si sia riacceso un dibattito su scala nazionale su San Patrignano, sulle comunità terapeutiche, solo dopo l'uscita della serie, ma visto che è servita una docu-serie per "rispolverare" l'argomento, credo che il lavoro su “Sanpa” debba allora diventare occasione per guardare l'oggi, per capire cosa possiamo fare nei confronti di un problema - come le tossicodipendenze, con la eventuale presa in carico delle comunità e l'intervento del Sert - ancora ben presente”. Le parole sono di Viviana Correddu, 40 anni, genovese, tossicodipendente dal 2001 al 2009 e “rinata” grazie al suo incontro con la comunità di San Benedetto al Porto, fondata nel 1970 da Don Andrea Gallo, il “prete di strada” genovese che accolse i primi “tossici” in canonica, salvo poi - con l'aiuto di persone di buona volontà tra cui per la maggior parte gli stessi tossicodipendenti da lui accolti - dar vita ad una comunità più strutturata: così nacquero le Cascine (tra Liguria e Piemonte) e la trattoria A Lanterna. Nulla a che vedere con San Patrignano, per metodologia e numeri. A confermarlo all'Agi la stessa Viviana che nel 2007 è entrata in quella comunità: “A San Benedetto di metodi punitivi non ce n'erano - racconta - quando le cose non andavano bene, si è sempre utilizzato il dialogo, la riunione, la messa in discussione, in gruppo, di quel che non andava bene. Meglio puntare sulle piccole comunità Certo, difficile farlo in una comunità con 2 mila persone - sottolinea Viviana - Ma è proprio qui la differenza: altre realtà, che oggi magari annaspano sul piano economico, hanno scelto di fare un percorso differente, con gruppi più piccoli. Nella Cascina di Mignanego, dove sono stata come residente per due anni, ad esempio eravamo arrivati a punte di massimo 17 persone”. A san Benedetto al Porto, infatti, le persone in comunità non superano la ventina in termini numerici. Una scelta precisa che porta avanti come comunità di "accoglienza", basata sui rapporti umani, in contrapposizione con il metodo "terapeutico" di massa. Questo per una ragione principale: non si lavora tanto sulla ricomposizione del soggetto fine a sé stesso, quanto ad una sua crescita personale all'interno di una "dimensione umana". Una "ricostruzione" che passa però anche attraverso il mondo e le inevitabili relazioni/complessità che comporta. San Benedetto al Porto è un luogo dove imparare a costruire relazioni con gli altri: il lavoro non è di reclusione, non si sta in una sorta di “bolla” dove tutto funziona alla perfezione, ma è di ricucitura dei legami con il territorio, dove si rinsaldano e verificano le relazioni, dove viene restituita la dignità e l'autostima. L'obiettivo generale è sviluppare la tendenza all'autogestione e alla graduale assunzione di responsabilità all'interno dei gruppi e alla capacità di autodeterminazione delle proprie scelte e dei propri comportamenti, nonché la consapevolezza di poter essere parte attiva nel contesto sociale e politico con cui, anche stando in comunità, si continua a interagire. Ci sono anche lì "regole" da rispettare, certo, e operatori (educatori e counselor) che seguono il percorso di ogni persona che entra in comunità, ma il metodo proattivo si posiziona in alternativa e opposizione a modelli di intervento di natura meramente assistenzialistica, verticale e clinico-terapeutica. Sono entrata che pesavo 37 chili, ora aiuto gli altri Per Viviana questo è un aspetto fondamentale: “Quando sono entrata a San Benedetto, pesavo 37 kg, giravo per strada con le siringhe nella borsa, mi facevo di cocaina e di eroina. Delle volte ero in giro per giorni per strada tanto che mi venivano le piaghe ai piedi, e non avevo mestruazioni da 2 anni. In comunità non avevo l'"angelo custode" che ti aspetta anche fuori dal gabinetto, come avviene a San Patrignano - sottolinea sorridendo - ma tante persone pronte ad aiutarmi, senza metodi coercitivi. Io - precisa - non ho la presunzione di dire che esiste un metodo giusto o uno sbagliato. Il punto è quello di dare la possibilità a tutti i soggetti che si occupano di tossicodipendenze di poter svolgere la propria funzione, mentre condanno fermamente qualunque metodo coercitivo che di fatto parte dal presupposto per cui il tossicodipendente non è in grado di intendere e volere. Una legge contro l'uso e l'abuso di droga non può parlare solo di terapia e penalizzazione, perché la lotta alla tossicodipendenza sono convinta si faccia attraverso la legalizzazione e la depenalizzazione dei reati legati alla tossicodipendenza”. Ecco perché l'occasione fornita dalla serie “Sanpa” non deve essere sprecata, secondo Viviana. Anzi, dice, “può essere un modo per ridiscutere di legge, di legalizzazione, che non vuol dire liberalizzazione, quindi dare regole nuove, coraggiose, che in altri Paesi europei sono state applicate e che dimostrano di funzionare”. Per Viviana un altro dei temi da affrontare è quello dell'impiego del metadone: “Il farmaco sostitutivo - metadone o subutex - deve essere uno strumento, se serve, per liberarsi della tossicodipendenza: non è possibile per 20-30 anni ritirare mensilmente la dose. Se nella testa dello Stato c'è l'idea di cronicizzare e di risolvere il problema così, a questo punto che sia “droga buona” - dice provocatoria - il metadone fa più danni dell'eroina se guardiamo solo l'aspetto degli effetti fisici e di dipendenza psicologica collaterale”. Il sostegno e l'attenzione all'individuo, alle sue peculiarità, sono strumenti necessari per uscire dalle tossicodipendenze, perché non tutti sono uguali, non tutti rispondono allo stesso modo a certi stimoli. Ecco perché, per Viviana, l'offerta delle comunità e dei percorsi da seguire deve essere variegata ed equamente sostenuta dal pubblico: “Quel che ci può suggerire una serie come "Sanpa" è, ad esempio, chiedersi cosa vogliamo che siano le comunità oggi. Vogliamo che siano luoghi dove una persona passa 10-15 anni della sua vita, come in una bolla di perfezione, poi esce e torna a farsi, o vogliamo dare la possibilità alle persone di scoprire nuovi modi di esistere? Recuperare quello che si è stati, senza snaturare, elaborando un percorso di crescita? Manca un dibattito su questo. E il problema grave attuale è che le risorse destinate alle comunità sono esigue. O ci sono finanziatori esterni o il rischio è che alcune - che lavorano su numeri inferiori - siano sempre più in difficoltà”. E senza queste piccole grandi comunità, come la stessa San Benedetto al Porto che, da 50 anni, porta avanti la sua missione, Viviana forse oggi non avrebbe sorriso con tutti i suoi denti, non avrebbe avuto un marito, una figlia, un lavoro, non avrebbe parlato in pubblico davanti all'ex ministro Giovanardi quando, ospite della comunità, gli aveva spiegato che “i tossici non hanno i buchi nel cervello” come lui sosteneva, il tutto sotto l'occhio benevolo e divertito di Don Gallo che, quando girava per la comunità spesso urlava "Dov'è la Viviana?", restituendole il suo nome, togliendola dall'invisibilità, facendola sentire apprezzata e accudita. Ho sempre potuto scegliere se restare o andarmene “Nessuno in quelle Cascine è stato prigioniero: se una persona non riusciva più a stare, certo se ne discuteva, gli si parlava insieme, ma se ne poteva andare quando voleva - racconta Viviana - Si partiva sempre dall'idea che ogni scelta doveva essere consapevole, dallo stare in comunità all'abbandonarla. Al centro si metteva sempre l'autodeterminazione della persona, che non significa abbandonarla a sé stessa. Nei momenti di crisi nessuno veniva lasciato solo allo sbaraglio. Ci sono stati giorni in cui mi fermavo con l'operatore a parlare ore: c'era sempre la volontà di far riflettere, ma avevo il mio documento in tasca, potevo decidere di chiamare mia madre, mio fratello e chiedere di venirmi a prendere o fare la borsa e andarmene”. "La comunità non è salvifica, ma un luogo importante per riequilibrare, in un momento di forte dipendenza, la propria vita - sottolinea Domenico Chionetti della comunità San Benedetto al porto, nelle cui case e cascine vengono ospitate al momento una cinquantina di persone - ma se manca il welfare, la casa, il riferimento lavorativo il percorso non si completa. Quel che noi chiediamo è un maggior investimento nel servizio pubblico e, a ruota, nel privato sociale: serve una rete vera. Non tutti gli ospiti di San Benedetto al porto ce l'hanno fatta come Viviana, per il principio che non tutte le persone sono uguali e rispondono agli stimoli nello stesso modo. Ma è stata quella strada a permettere a questa donna di sentirsi nuovamente Viviana. Per lei è questo il tema centrale: tutti hanno diritto ad una possibilità. Continua ad abbassarsi l'età media degli assistiti dai Sert Secondo dati raccolti in Liguria, il problema delle dipendenze, in particolare tossicodipendenze, è più che attuale e abbraccia fasce d'età sempre più basse: sulla base di riscontri effettuati da Alisa su richiesta di Agi, rispetto alle precedenti rilevazioni i dati relativi al 2019 (i più recenti) segnalano un aumento di giovani in carico ai Sert nelle classi 15-19 anni e 20-24 anni, soprattutto per consumo di cannabinoidi. La “moda” di oggi, rispetto al passato, è il policonsumo: ovvero assunzione di sostanze legali, come alcol e tabacco, mischiate a psicofarmaci e, ad esempio, cannabinoidi. Questa “moda” non vede nette distinzioni tra maschi e femmine: per consumo di alcol e tabacco le percentuali sono simili, per l'uso di psicofarmaci invece primeggiano le femmine, per i cannabinoidi si inizia con percentuali simili, poi diventano appannaggio dei maschi. Forte è anche la sperimentazione tra i giovani: in media, il 3,4% degli studenti ha riferito di aver fatto uso, almeno una volta nella vita, di nuove sostanze psicoattive (Nps). Si tratta di sostanze molto potenti, spesso di origine sintetica, che sfuggono ai controlli perché non censite nelle tabelle ufficiali delle droghe illegali. Questa percentuale, sebbene in leggera diminuzione rispetto al 4% registrato nel 2015, rappresenta comunque livelli di consumo più elevati rispetto ad anfetamine, ecstasy, cocaina o Lsd, considerati individualmente. Quasi tutti gli utilizzatori di Nps sono ‘policonsumatori', ovvero fanno uso anche di altre sostanze (come alcol, cannabis e stimolanti), cannabinoidi sintetici, comprati soprattutto online, con livelli di Thc molto forti: “Chi li prende, spesso non sa cosa assume - racconta Sonia Salvini, responsabile del Servizio dipendenze di Alisa - finisce al pronto soccorso perché si spaventa molto. Ma quando gli si chiede cosa ha assunto, non sa rispondere. E' un fenomeno che va subito individuato per poi intraprendere il corretto percorso”. Negli ultimi 50 anni il consumo e l'abuso di sostanze è più volte cambiato in Italia: i Sert sono sentinelle attente sul territorio che fotografano questi mutamenti. Ad esempio, quelli della Liguria rivelano che le persone in carico per consumo di sostanze illecite al 31 dicembre 2019 sono state quasi 4mila (3.980), con un incremento dei giovani tra 15 e 19 anni. Quelle inserite in comunità terapeutiche, compresi gli enti del privato sociale accreditato (come la Comunità di San Benedetto al Porto, ad esempio) nel 2019 sono state 724. La permanenza media in comunità residenziale è di 24 mesi. Nel giro di un paio di mesi dalla richiesta, la persona viene inserita. Si tratta di soggetti segnalati ai Nuclei Operativi Tossicodipendenze Liguri per violazione della art. 75 L309/90 (quindi "chiunque illecitamente importa, esporta, acquista, riceve a qualsiasi titolo o comunque detiene sostanze stupefacenti", ndr) nel 2019 sono stati 1.543, di cui il 13,6 % minorenne e il 65% residente nel capoluogo ligure. Tra i segnalati, il 22% appartiene alle classi di età 15-19 anni, mentre il 26% alle classi di età 20-24 anni. Metà, quindi, sono tra i 15 e i 24 anni, mentre il rimanente 50% si distribuisce tra le classi di età più alte. Il 79% è stato segnalato per consumo o detenzione illecita di cannabinoidi, il 14% per cocaina, il rimanente 7% per oppiacei. Parlando di presa in carico da parte dei Sert, la sostanza illegale per cui è maggiore la domanda di trattamento in Liguria è rappresentata dagli oppiacei con il 67,8%, seguita dai cannabinoidi con il 15% e cocaina, con il 13%. Rispetto alla precedente rilevazione, si segnala una maggiore domanda di trattamento per consumi di cocaina (dal 13% al 17%) a fronte di una contrazione per eroina. La domanda per cannabinoidi è invece stabile (15%).
Si chiama “maskne” la nuova malattia causata dalla mascherina: la parola deriva dalla fusione delle parole 'mask' (mascherina) e acne.
La signora Maria, che a 98 anni ha battuto il virus, ha ritrovato in casa un buono fruttifero delle Poste del valore di 475mila euro
Il sindaco del comune di Lizzanello, in provincia di Lecce: "Non ci rappresenta
AGI - Ha appena 22 anni Carmen d'Andrea e oggi comincerà l'aspirantato religioso nel monastero Santa Maria delle Vergini di Bitonto, in provincia di Bari. La giovane donna è seconda di due figli, nata da mamma Anna e papà Gaetano, e vive ad Eboli, in provincia di Salerno. La prima volta è stata nella città pugliese per presentare il suo libro “Innato Amore. ‘Grate' di libertà”, un modo per far conoscere la vita monastica al mondo esterno. Carmen ha cominciato la sua esperienza religiosa nel 2014. “Era l'11 maggio di quell'anno quando ho vissuto la mia prima giornata in un monastero di clausura – racconta la giovane all'AGI -. Avevo 15 anni ma sentivo il forte bisogno di scoprire il silenzio. Durante lo studio del monachesimo nel programma di pedagogia al liceo mi sono sentita spinta verso questa realtà. Così ho conosciuto la comunità monastica di Sant'Antonio Abate della mia città, Eboli, e la madre abbadessa Ildegarde Landi. Sono cresciuta anche con loro e conoscendole mi sono ricreduta sulla loro figura, spesso al di fuori del Monastero viene fraintesa”. Il giorno della svolta, quando tutto è cambiato, è il 5 novembre 2018: "Ho iniziato a viaggiare tra Campania e Puglia per il libro che ho presentato a Bitonto, con me c'erano i miei genitori e un'altra poetessa. In quell'occasione - spiega ancora - ho conosciuto la realtà monastica bitontina e la madre abbadessa Maria Carmela Modugno: sentivo che la sua presenza non era stata messa nella mia vita per caso e qualcosa di forte mi ha spinta in quella città, in quel monastero. Forse ero destinata da sempre a questa terra”. “Ho capito – aggiunge Carmen – che il monastero bitontino è il mio ‘punto felice' perché ogni volta che tornavo da lì mi sentivo incompleta”. Come hai capito fosse la scelta giusta da fare? “Ce ne ho messo di tempo per decidermi – ammette Carmen -. All'inizio è stato un trauma anche per me, avevo iniziato il percorso monastico a Eboli e lasciare le compagne è stata la cosa più difficile. E poi dirlo ai miei genitori, ai miei amici, però sono stata fortunata: non mi hanno mai lasciata sola, infatti lunedì mi accompagneranno loro a Bitonto e poi saluteranno la comunità da fuori, da lontano, anche per via delle normative anti contagio. Ho dovuto fare il tampone per sicurezza, risultato negativo, e per evitare contatti sto salutando tutti i miei amici dal balcone, come se fosse una serenata romantica”. E i tuoi genitori come hanno reagito? “Mi aspettavo una reazione negativa. Invece sono commossi, come tutti. Sarà perché mi hanno vista felice, determinata. Certo - dice la giovane - avrebbero preferito Eboli o la missione. Ma così doveva andare. Al cuor non si comanda! È lo stesso procedimento dell'innamoramento. Ti innamori per tanti motivi, però non lo sai spiegare fino in fondo. Allora ti vivi questo momento magico che solo l'Amore può creare”. Non ti mancherà la vita che vivono i tuoi coetanei a questa età? “L'emergenza sanitaria nella quale ci troviamo amplifica ogni emozione e fare un passo in questo momento storico è una grande responsabilità. Durante questo isolamento che tutti stiamo vivendo è successo qualcosa di forte nella mia vita. Ho compreso dove voglio vivere. Ho compreso dov'è la mia stabilità. È difficile lasciare la vita che ho condotto finora. Posso dire di aver vissuto una vita felice e sono sicura che continuerà ad esserlo. Mi rendo conto che non è una scelta semplice, è una scelta bella tosta, soprattutto a 22 anni. Ma sento che non si può più rimandare. Vada come vada potrò dire di averci provato e in ogni modo sarà bellissimo. Questa - sottolinea - sarà l'avventura più bella; con Gesù è sempre un'avventura”. Per chi pregherai? “La preghiera è assicurata per tutti! Specialmente in questo periodo e anche io mi affido alla preghiera degli altri”, conclude Carmen.
Il gruppo Colussi raddoppia: dopo Misura anche Agnesi sceglie l’imballo che si trasforma in terriccio fertile
AGI - Una zebra a pois non è più solo il titolo di una canzone per bambini, ma in Africa è una vera e propria realtà. A causa di una serie di mutazioni genetiche, dovute principalmente alla consanguineità, in Africa sono state identificate e studiate zebre davvero bizzarre: a pois, ma anche con il manto dorato. Non si tratta di mutazioni innocue, ma pericolose dal punto di vista evolutivo. Queste, in estrema sintesi, le conclusioni di uno studio condotto da un gruppo di ricercatori dell'Università della California a Los Angeles. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Molecular Ecology e a essi è stato dedicato un servizio sul National Geographic. Nello studio i ricercatori hanno eseguito test DNA sulle zebre africane per comprendere le ragioni delle anormalità nel manto di diversi esemplari. “La frammentazione dell'habitat da parte dell'uomo – spiega Brenda Larison dell'Università della California a Los Angeles – ha portato le zebre ad aumentare la consanguineità, per cui queste mutazioni caratteristiche potrebbero evidenziare un pericolo futuro per la specie”. Isolated groups were more likely to produce abnormally striped zebras, suggesting these genetic mutations are caused by inbreeding and habitat fragmentation https://t.co/3XnyN6Sd55 — National Geographic (@NatGeo) January 23, 2021 Il team ha analizzato il DNA di 140 esemplari, sette dei quali presentavano un manto atipico, provenienti da nove parchi nazionali in Africa. “Una mancanza di diversità genetica può portare a difetti genetici – continua la ricercatrice – malattie e infertilità. Le zebre non sono attualmente una specie minacciata, ma la loro popolazione ha registrato un calo del 25 per cento nel numero di unità dal 2002. Sono stati osservati modelli atipici durante questo periodo, ma non sapevamo con sicurezza a cosa potessero essere attribuite tali caratteristiche”. Secondo National Geographic, circa 500 mila zebre sono state influenzate dalla frammentazione dell'habitat causata dallo sviluppo umano, il che costringe gli animali in aree più piccole e impedisce loro di migrare con mandrie diverse, un processo fondamentale per la diversità genetica. “Anche se le zebre non sono attualmente minacciate – osserva la scienziata – questi problemi genetici potrebbero identificare un pericolo in futuro. Le famose strisce nere delle zebre si sono evolute per facilitare il processo di mimetizzazione degli animali nella pianura. Manti caratteristici sono più evidenti per i predatori”. L'autrice ribadisce poi che la salute genetica dell'animale, inoltre, deve essere salvaguardata per evitare difetti congeniti, malattie, infertilità. “I conservazionisti tentano spesso di spostare le zebre per riprodursi con altre popolazioni – conclude Desire Dalton, che studia la genetica della fauna selvatica presso il South African National Biodiversity Institute di Pretoria – ma bisogna essere consapevoli di quando le unioni possono essere un vantaggio per la specie e quando invece ciò potrebbe essere deleterio. È necessaria una profonda consapevolezza di quali popolazioni possano essere avvicinate”.