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AGI - "In quel preciso istante l'unico mezzo di contenimento per Natale era il bendaggio. Era l'unico modo per calmarlo. Era agitato, insensibile ad ogni richiamo, indocile, al punto che anche io ho preso qualche testata da lui". A dirlo il militare dell'Arma, Silvio Pellegrini, sentito come testimone nel processo che vede imputati Christian Gabriel Natale Hjorth e Finnegan Lee Elder per l'omicidio del vicebrigadiere dei carabinieri, Mario Cerciello Rega, avvenuto a luglio del 2019 nel quartiere romano di Prati. Pellegrini è indagato dalla procura di Roma per rivelazione del segreto d'ufficio e abuso di ufficio in relazione alla foto, scattata e diffusa via chat, di Natale Hjorth bendato nella caserma dei carabinieri di via in Selci poco dopo il fermo. Pellegrini è stato indagato anche dalla procura militare. "Non si è soliti bendare, non l'ho mai fatto e mai l'avevo visto fare", ha sottolineato il carabiniere. "Sono entrato nella stanza e Natale era già ammanettato - ha detto -. Il bendaggio è durato pochi minuti, poi Natale si è calmato e gli hanno portato dell'acqua". Sulla foto il carabiniere ha aggiunto: "L'ho scattata e inviata in una chat con 18 colleghi, per comunicare loro che avevamo arrestato i due soggetti. Non ho risposto a nessun commento e non feci altre foto. In quell'ufficio - ha concluso - era un caos totale".
AGI - Una donna peruviana che si è offerta volontaria per testare il vaccino della cinese Sinopharm è morta di Covid. Lo ha riferito l'autorità sanitaria responsabile dei test a Lima, senza precisare però se la donna avesse ricevuto l'immunizzante o un placebo. "Siamo spiacenti di informare che uno dei nostri volontari è morto a causa di una polmonite Covid-19", ha comunicato l'università 'Cayetano Heredia', responsabile della sperimentazione clinica del vaccino Sinopharm. La donna, di 54 anni e apparentemente in buona salute prima di ricevere le due dosi vaccinali in ottobre, "ha ricevuto tutte le cure indicate per questa malattia e le sue complicanze e ha lottato per la sua vita per più di una settimana, senza riuscire a sconfiggere" il virus, ha aggiunto l'università, secondo cui non è stato possibile determinare se la volontaria ha ricevuto il vaccino sperimentale o un placebo perché si tratta di una "sperimentazione in doppio cieco, cioè né il partecipante né noi possiamo determinare quale prodotto di ricerca ha ricevuto". L'esito fatale è stato comunicato alle autorità sanitarie peruviane e al comitato di sicurezza dello studio, per indagare sulle cause della morte. Il governo peruviano ha annunciato questo mese di aver acquistato 38 milioni di dosi del vaccino Sinopharm. Gli studi clinici erano stati temporaneamente sospesi il 12 dicembre per alcune settimane dopo che uno in uno dei volontari, un maschio, erano comparsi sintomi della sindrome di Guillain-Barre', una malattia neurologica consistente nella degenerazione delle guaine mieliniche che rivestono le fibre nervose. La sperimentazione, che si è svolta tra settembre e dicembre, ha coinvolto 12.000 volontari di età compresa tra i 18 ei 75 anni.
Steven Brandenburg, 46 anni, si è dichiarato colpevole. Il suo obiettivo era quello di rendere inefficace il vaccino. Lo rende noto il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti
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Le uniche limitazioni restano per musei, cinema e teatri, che devono lavorare al 50% della capienza. "La situazione coronavirus continua a migliorare"
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AGI - Il 30 dicembre scorso usciva sulla piattaforma Netflix la serie “Sanpa - luci e tenebre di San Patrignano”, serie TV che, attraverso interviste a collaboratori e ex ospiti, con immagini d'archivio, documenta la controversa storia della comunità di riabilitazione per tossicodipendenti fondata da Vincenzo Muccioli nel 1978, a Coriano. “Ho voluto vedere quella serie, nonostante ne avessi timore. Perché sapevo che mi avrebbe scosso. Al contrario di quanto dichiarato dai responsabili di San Patrignano, l'ho trovata più che equilibrata, con un ottimo lavoro di ricostruzione. E' demotivante però il fatto che si sia riacceso un dibattito su scala nazionale su San Patrignano, sulle comunità terapeutiche, solo dopo l'uscita della serie, ma visto che è servita una docu-serie per "rispolverare" l'argomento, credo che il lavoro su “Sanpa” debba allora diventare occasione per guardare l'oggi, per capire cosa possiamo fare nei confronti di un problema - come le tossicodipendenze, con la eventuale presa in carico delle comunità e l'intervento del Sert - ancora ben presente”. Le parole sono di Viviana Correddu, 40 anni, genovese, tossicodipendente dal 2001 al 2009 e “rinata” grazie al suo incontro con la comunità di San Benedetto al Porto, fondata nel 1970 da Don Andrea Gallo, il “prete di strada” genovese che accolse i primi “tossici” in canonica, salvo poi - con l'aiuto di persone di buona volontà tra cui per la maggior parte gli stessi tossicodipendenti da lui accolti - dar vita ad una comunità più strutturata: così nacquero le Cascine (tra Liguria e Piemonte) e la trattoria A Lanterna. Nulla a che vedere con San Patrignano, per metodologia e numeri. A confermarlo all'Agi la stessa Viviana che nel 2007 è entrata in quella comunità: “A San Benedetto di metodi punitivi non ce n'erano - racconta - quando le cose non andavano bene, si è sempre utilizzato il dialogo, la riunione, la messa in discussione, in gruppo, di quel che non andava bene. Meglio puntare sulle piccole comunità Certo, difficile farlo in una comunità con 2 mila persone - sottolinea Viviana - Ma è proprio qui la differenza: altre realtà, che oggi magari annaspano sul piano economico, hanno scelto di fare un percorso differente, con gruppi più piccoli. Nella Cascina di Mignanego, dove sono stata come residente per due anni, ad esempio eravamo arrivati a punte di massimo 17 persone”. A san Benedetto al Porto, infatti, le persone in comunità non superano la ventina in termini numerici. Una scelta precisa che porta avanti come comunità di "accoglienza", basata sui rapporti umani, in contrapposizione con il metodo "terapeutico" di massa. Questo per una ragione principale: non si lavora tanto sulla ricomposizione del soggetto fine a sé stesso, quanto ad una sua crescita personale all'interno di una "dimensione umana". Una "ricostruzione" che passa però anche attraverso il mondo e le inevitabili relazioni/complessità che comporta. San Benedetto al Porto è un luogo dove imparare a costruire relazioni con gli altri: il lavoro non è di reclusione, non si sta in una sorta di “bolla” dove tutto funziona alla perfezione, ma è di ricucitura dei legami con il territorio, dove si rinsaldano e verificano le relazioni, dove viene restituita la dignità e l'autostima. L'obiettivo generale è sviluppare la tendenza all'autogestione e alla graduale assunzione di responsabilità all'interno dei gruppi e alla capacità di autodeterminazione delle proprie scelte e dei propri comportamenti, nonché la consapevolezza di poter essere parte attiva nel contesto sociale e politico con cui, anche stando in comunità, si continua a interagire. Ci sono anche lì "regole" da rispettare, certo, e operatori (educatori e counselor) che seguono il percorso di ogni persona che entra in comunità, ma il metodo proattivo si posiziona in alternativa e opposizione a modelli di intervento di natura meramente assistenzialistica, verticale e clinico-terapeutica. Sono entrata che pesavo 37 chili, ora aiuto gli altri Per Viviana questo è un aspetto fondamentale: “Quando sono entrata a San Benedetto, pesavo 37 kg, giravo per strada con le siringhe nella borsa, mi facevo di cocaina e di eroina. Delle volte ero in giro per giorni per strada tanto che mi venivano le piaghe ai piedi, e non avevo mestruazioni da 2 anni. In comunità non avevo l'"angelo custode" che ti aspetta anche fuori dal gabinetto, come avviene a San Patrignano - sottolinea sorridendo - ma tante persone pronte ad aiutarmi, senza metodi coercitivi. Io - precisa - non ho la presunzione di dire che esiste un metodo giusto o uno sbagliato. Il punto è quello di dare la possibilità a tutti i soggetti che si occupano di tossicodipendenze di poter svolgere la propria funzione, mentre condanno fermamente qualunque metodo coercitivo che di fatto parte dal presupposto per cui il tossicodipendente non è in grado di intendere e volere. Una legge contro l'uso e l'abuso di droga non può parlare solo di terapia e penalizzazione, perché la lotta alla tossicodipendenza sono convinta si faccia attraverso la legalizzazione e la depenalizzazione dei reati legati alla tossicodipendenza”. Ecco perché l'occasione fornita dalla serie “Sanpa” non deve essere sprecata, secondo Viviana. Anzi, dice, “può essere un modo per ridiscutere di legge, di legalizzazione, che non vuol dire liberalizzazione, quindi dare regole nuove, coraggiose, che in altri Paesi europei sono state applicate e che dimostrano di funzionare”. Per Viviana un altro dei temi da affrontare è quello dell'impiego del metadone: “Il farmaco sostitutivo - metadone o subutex - deve essere uno strumento, se serve, per liberarsi della tossicodipendenza: non è possibile per 20-30 anni ritirare mensilmente la dose. Se nella testa dello Stato c'è l'idea di cronicizzare e di risolvere il problema così, a questo punto che sia “droga buona” - dice provocatoria - il metadone fa più danni dell'eroina se guardiamo solo l'aspetto degli effetti fisici e di dipendenza psicologica collaterale”. Il sostegno e l'attenzione all'individuo, alle sue peculiarità, sono strumenti necessari per uscire dalle tossicodipendenze, perché non tutti sono uguali, non tutti rispondono allo stesso modo a certi stimoli. Ecco perché, per Viviana, l'offerta delle comunità e dei percorsi da seguire deve essere variegata ed equamente sostenuta dal pubblico: “Quel che ci può suggerire una serie come "Sanpa" è, ad esempio, chiedersi cosa vogliamo che siano le comunità oggi. Vogliamo che siano luoghi dove una persona passa 10-15 anni della sua vita, come in una bolla di perfezione, poi esce e torna a farsi, o vogliamo dare la possibilità alle persone di scoprire nuovi modi di esistere? Recuperare quello che si è stati, senza snaturare, elaborando un percorso di crescita? Manca un dibattito su questo. E il problema grave attuale è che le risorse destinate alle comunità sono esigue. O ci sono finanziatori esterni o il rischio è che alcune - che lavorano su numeri inferiori - siano sempre più in difficoltà”. E senza queste piccole grandi comunità, come la stessa San Benedetto al Porto che, da 50 anni, porta avanti la sua missione, Viviana forse oggi non avrebbe sorriso con tutti i suoi denti, non avrebbe avuto un marito, una figlia, un lavoro, non avrebbe parlato in pubblico davanti all'ex ministro Giovanardi quando, ospite della comunità, gli aveva spiegato che “i tossici non hanno i buchi nel cervello” come lui sosteneva, il tutto sotto l'occhio benevolo e divertito di Don Gallo che, quando girava per la comunità spesso urlava "Dov'è la Viviana?", restituendole il suo nome, togliendola dall'invisibilità, facendola sentire apprezzata e accudita. Ho sempre potuto scegliere se restare o andarmene “Nessuno in quelle Cascine è stato prigioniero: se una persona non riusciva più a stare, certo se ne discuteva, gli si parlava insieme, ma se ne poteva andare quando voleva - racconta Viviana - Si partiva sempre dall'idea che ogni scelta doveva essere consapevole, dallo stare in comunità all'abbandonarla. Al centro si metteva sempre l'autodeterminazione della persona, che non significa abbandonarla a sé stessa. Nei momenti di crisi nessuno veniva lasciato solo allo sbaraglio. Ci sono stati giorni in cui mi fermavo con l'operatore a parlare ore: c'era sempre la volontà di far riflettere, ma avevo il mio documento in tasca, potevo decidere di chiamare mia madre, mio fratello e chiedere di venirmi a prendere o fare la borsa e andarmene”. "La comunità non è salvifica, ma un luogo importante per riequilibrare, in un momento di forte dipendenza, la propria vita - sottolinea Domenico Chionetti della comunità San Benedetto al porto, nelle cui case e cascine vengono ospitate al momento una cinquantina di persone - ma se manca il welfare, la casa, il riferimento lavorativo il percorso non si completa. Quel che noi chiediamo è un maggior investimento nel servizio pubblico e, a ruota, nel privato sociale: serve una rete vera. Non tutti gli ospiti di San Benedetto al porto ce l'hanno fatta come Viviana, per il principio che non tutte le persone sono uguali e rispondono agli stimoli nello stesso modo. Ma è stata quella strada a permettere a questa donna di sentirsi nuovamente Viviana. Per lei è questo il tema centrale: tutti hanno diritto ad una possibilità. Continua ad abbassarsi l'età media degli assistiti dai Sert Secondo dati raccolti in Liguria, il problema delle dipendenze, in particolare tossicodipendenze, è più che attuale e abbraccia fasce d'età sempre più basse: sulla base di riscontri effettuati da Alisa su richiesta di Agi, rispetto alle precedenti rilevazioni i dati relativi al 2019 (i più recenti) segnalano un aumento di giovani in carico ai Sert nelle classi 15-19 anni e 20-24 anni, soprattutto per consumo di cannabinoidi. La “moda” di oggi, rispetto al passato, è il policonsumo: ovvero assunzione di sostanze legali, come alcol e tabacco, mischiate a psicofarmaci e, ad esempio, cannabinoidi. Questa “moda” non vede nette distinzioni tra maschi e femmine: per consumo di alcol e tabacco le percentuali sono simili, per l'uso di psicofarmaci invece primeggiano le femmine, per i cannabinoidi si inizia con percentuali simili, poi diventano appannaggio dei maschi. Forte è anche la sperimentazione tra i giovani: in media, il 3,4% degli studenti ha riferito di aver fatto uso, almeno una volta nella vita, di nuove sostanze psicoattive (Nps). Si tratta di sostanze molto potenti, spesso di origine sintetica, che sfuggono ai controlli perché non censite nelle tabelle ufficiali delle droghe illegali. Questa percentuale, sebbene in leggera diminuzione rispetto al 4% registrato nel 2015, rappresenta comunque livelli di consumo più elevati rispetto ad anfetamine, ecstasy, cocaina o Lsd, considerati individualmente. Quasi tutti gli utilizzatori di Nps sono ‘policonsumatori', ovvero fanno uso anche di altre sostanze (come alcol, cannabis e stimolanti), cannabinoidi sintetici, comprati soprattutto online, con livelli di Thc molto forti: “Chi li prende, spesso non sa cosa assume - racconta Sonia Salvini, responsabile del Servizio dipendenze di Alisa - finisce al pronto soccorso perché si spaventa molto. Ma quando gli si chiede cosa ha assunto, non sa rispondere. E' un fenomeno che va subito individuato per poi intraprendere il corretto percorso”. Negli ultimi 50 anni il consumo e l'abuso di sostanze è più volte cambiato in Italia: i Sert sono sentinelle attente sul territorio che fotografano questi mutamenti. Ad esempio, quelli della Liguria rivelano che le persone in carico per consumo di sostanze illecite al 31 dicembre 2019 sono state quasi 4mila (3.980), con un incremento dei giovani tra 15 e 19 anni. Quelle inserite in comunità terapeutiche, compresi gli enti del privato sociale accreditato (come la Comunità di San Benedetto al Porto, ad esempio) nel 2019 sono state 724. La permanenza media in comunità residenziale è di 24 mesi. Nel giro di un paio di mesi dalla richiesta, la persona viene inserita. Si tratta di soggetti segnalati ai Nuclei Operativi Tossicodipendenze Liguri per violazione della art. 75 L309/90 (quindi "chiunque illecitamente importa, esporta, acquista, riceve a qualsiasi titolo o comunque detiene sostanze stupefacenti", ndr) nel 2019 sono stati 1.543, di cui il 13,6 % minorenne e il 65% residente nel capoluogo ligure. Tra i segnalati, il 22% appartiene alle classi di età 15-19 anni, mentre il 26% alle classi di età 20-24 anni. Metà, quindi, sono tra i 15 e i 24 anni, mentre il rimanente 50% si distribuisce tra le classi di età più alte. Il 79% è stato segnalato per consumo o detenzione illecita di cannabinoidi, il 14% per cocaina, il rimanente 7% per oppiacei. Parlando di presa in carico da parte dei Sert, la sostanza illegale per cui è maggiore la domanda di trattamento in Liguria è rappresentata dagli oppiacei con il 67,8%, seguita dai cannabinoidi con il 15% e cocaina, con il 13%. Rispetto alla precedente rilevazione, si segnala una maggiore domanda di trattamento per consumi di cocaina (dal 13% al 17%) a fronte di una contrazione per eroina. La domanda per cannabinoidi è invece stabile (15%).
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La testimonianza del medico è stata raccolta dalla Bbc in un documentario che ricostruisce i 54 giorni dal primo caso noto al blocco di Wuhan
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AGI - “Il mio nome si pronuncia 'comma-la'. Significa 'fiore di loto', che è un simbolo importante nella cultura indiana. Il loto cresce sott'acqua, e il suo fiore fuoriesce dalla superficie quando le radici sono ben piantate nel fondale del fiume”. Si presenta così Kamala Harris, la prima donna vicepresidente degli Stati Uniti dopo essere stata la prima in tante altre funzioni (prima donna procuratore generale della California, prima afro-asioamericana ad essere eletta al Senato) nella sua autobiografia ‘Le nostre verità' dal 28 gennaio il libreria edito da 'La nave di Teseo' nella collana ‘i Fari'. Pubblicato in America a gennaio 2019 col titolo ‘The Truths We Hold: An American Journey' (Le verità che abbiamo: un viaggio americano), questo libro è scritto prima che la vita della senatrice democratica fosse stravolta dagli eventi che l'hanno portata ad affiancare Joe Biden nella corsa alla Casa Bianca e arrivare lassù dove mai una donna era arrivata, sullo scranno della seconda carica degli Stati Uniti. Per questo, forse, ancor più interessante perché la Harris, nata a Oakland in California da madre indiana, immigrata da Chennai, e da padre di origine giamaicana, si mette a nudo raccontando la sua infanzia, l'impegno civile dei genitori, ma soprattutto della madre Shyamala Gopalan (il padre Donald, professore di Economia, se ne andò quando lei e la sorella Maya erano ancora piccole, pur restando sempre presente nella loro vita), endocrinologa impegnata nella ricerca contro il tumore al seno. In questo libro Kamala si racconta, parla della sua esperienza fin da bambina a contatto con le comunità di colore, spiega di essersi nutrita con le discussioni sulla giustizia sociale (ricorda che la madre le raccontava che da piccina faceva i capricci e lei le chiedeva: “Cos'è che vuoi?”. Kamala rispondeva: “Libbettà!”). Nelle oltre 350 pagine del libro la Harris ripercorre, con dettagli e aneddoti importanti, le tappe da lei bruciate durante una carriera ricca di soddisfazioni e grandi risultati. Una carriera iniziata, dopo la laurea alla Howard University e all'Hastings College of the Law di San Francisco, nell'ufficio del procuratore distrettuale della contea di Alameda (dove ha lavorato dal 1990 al 1998) e proseguita quando ha fatto il primo grande passo in politica, candidandosi e venendo eletta nel 2003 procuratore distrettuale di San Francisco dove è rimasta in carica, dopo la rielezione nel 2007, fino al 2011. Nel 2010 la candidatura a procuratore generale della California e l'ennesima vittoria diventando la prima donna a ricoprire tale carica, oltre che la prima persona asioamericana. Rieletta ancora nel 2014, come procuratore generale della California la Harris ha perseguito gruppi criminali internazionali, grandi banche, compagnie petrolifere e università private, e si è opposta agli attacchi diretti contro l'Obamacare (la riforma del sistema sanitario del presidente Obama). Si è inoltre battuta per ridurre l'assenteismo nelle scuole elementari, ha aperto la strada alla prima divulgazione a livello nazionale di informazioni sulle disparità razziali nel sistema giudiziario penale, ha introdotto corsi di formazione sui pregiudizi per gli agenti di polizia. La carriera della Harris ha poi toccato una vetta quando nel 2016 è diventata la seconda donna nera a essere eletta nel Senato americano (la prima afro-asioamericana). In Senato, come racconta ampiamente nella sua autobiografia, ha lavorato per riformare il sistema di giustizia penale degli Stati Uniti, aumentare i salari minimi, rendere l'istruzione superiore gratuita per la maggior parte degli americani e tutelare i diritti dei rifugiati e degli immigrati. Leggere oggi ‘Le nostre verità', quando Kamala Harris è diventata vicepresidente degli Stati Uniti, è ancora più interessante perché si legge di una ragazza cresciuta a pane e diritti civili, impegnata da sempre nella difesa delle donne e contro le ingiustizie. Convinta che lo Stato deve farsi carico dei problemi di chi è più debole (“Nel nostro Paese un crimine contro un qualunque cittadino è commesso contro tutti noi – scrive – ecco perché i pubblici ministeri non rappresentano la vittima, loro rappresentano ‘il popolo', la società nel suo complesso”), che il futuro si costruisce tutti insieme, che “un patriota non è qualcuno che giustifica la condotta del proprio Paese qualsiasi cosa esso faccia; è uno che combatte ogni giorno per gli ideali della nazione, a qualunque costo”. E non dimentica, nell'ultimo capitolo dedicato a ‘quello che ha imparato' di citare i movimenti per i diritti delle persone di colore Black Lives Matter e quello contro le molestie sessuali (soprattutto da parte degli uomini nei confronti delle donne) #MeToo. Ma lo fa elevando la protesta da cui hanno avuto origine al rango di rivendicazione per i diritti civili. “Black Lives Matter non può essere soltanto un invito a unirsi per le persone di colore – scrive Kamala Harris – ma uno stendardo sotto cui devono riunirsi tutte le persone perbene. Il movimento #MeToo non può attuare cambiamenti strutturali durevoli per le donne sui luoghi di lavoro, a meno che non vi aderiscano anche gli uomini. Le vittorie conseguite da un gruppo possono portare a vittorie per altri, nei tribunali e nella società considerata nel suo insieme. Nessuno di noi – nessuno – dovrebbe essere costretto a lottare da solo”, conclude. Quindi una considerazione che oggi vale come una dichiarazione programmatica, soprattutto da parte di un'amministrazione che arriva dopo quella di Donald Trump: “Se siamo abbastanza fortunati da trovarci in una posizione di potere, se la nostra voce e le nostre azioni possono innescare un cambiamento, non abbiamo forse un obbligo speciale? Essere alleati di una causa – scrive la vicepresidente degli Stati Uniti – deve tradursi in azione. Sta a noi lottare per coloro che non siedono al tavolo dove vengono prese decisioni capaci di incidere sulla vita della gente”. E alla fine della sua biografia, scritta quando ancora ignorava di essere destinata a raggiungere una vetta politica mai toccata da alcuna donna negli Usa (anche se profeticamente nel libro cita la mamma che le diceva sempre: “Puoi essere la prima. Non essere l'ultima”), Kamala anticipa quello che sarebbe poi diventato il punto numero uno del programma del presidente Biden e della sua vice: “La mia sfida quotidiana con me stessa consiste nell'essere parte della soluzione, nell'essere una guerriera gioiosa nella battaglia a venire. La mia sfida per voi è di unirvi a questa impresa. Di alzarvi in piedi per i nostri ideali e i nostri valori”. E conclude: “Tra qualche anno, i nostri figli e i nostri nipoti alzeranno lo sguardo e ci fisseranno, domandandoci dove fossimo, quando la posta in gioco era così alta. Ci chiederanno com'è stato. E io non voglio che diciamo loro semplicemente come ci sentivamo. Voglio che diciamo loro che cosa abbiamo fatto”. @andreacauti